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Azione di adempimento

Giustizia amministrativa

Sul superamento della c.d. teoria del giudicato a formazione progressiva e l’attribuzione al giudice di cognizione del potere di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese. Sui limiti all’esperimento dell’azione di adempimento. Sulla consumazione del potere discrezionale della p.a. reinvestita della questione a seguito di sentenza di annullamento ovvero di remand. Sul principio di aticipicità delle azioni a tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Sul principio di “preferenza” ordinamentale per la tutela specifica.Sull’ammissibilità dell’azione generale di adempimento pubblicistico.
T.A.R. Lombardia Milano, Sez. 3, Sentenza 8 giugno 2011, n. 01428

Principio

1. Sul superamento della c.d. teoria del giudicato a formazione progressiva e l’attribuzione al giudice di cognizione del potere di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese.
1.1.
La questione se, dopo l’accertamento giurisdizionale della illegittimità di un diniego su di una istanza, l’amministrazione possa negare nuovamente al ricorrente il bene della vita a cui il ricorrente aspira in base ad accertamenti o valutazioni che sarebbero potuti essere già compiuti nell’originario procedimento amministrativo, ovvero se ne consegua il vincolo conformativo di accordare la richiesta del cittadino, si iscrive ne quadro dei rapporti tra gli effetti della sentenza ed il fluire della attività giuridica amministrativa.
L’opinione tradizionale escludeva di poter riconnettere alla sentenza amministrativa l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato. L’ordinamento processuale amministrativo, tuttavia, si è progressivamente affrancato dal paradigma del mero accertamento giuridico di validità dell’atto.
1.2. Il primo passo, stante l’insufficienza di una tutela soltanto caducatoria degli emergenti interessi pretensivi, è stato quello di superare i “limiti” dell’annullamento postulando, accanto all’effetto demolitorio della sentenza, anche quello conformativo e ripristinatorio.
Sennonché, anche quando il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento (di per sé variabile in relazione al tipo di vizio riscontrato ed al tratto di potere dedotto in giudizio) consentiva una ampia definizione della fattispecie sostanziale (giungendo, talvolta, finanche a prefigurarne l’assetto finale), esso mai poteva tradursi in un espresso dispositivo di condanna, e ciò pur ammettendosi l’insorgere di un obbligo pubblicistico in capo alla p.a. di ripristinare lo status quo ante e di conformarsi alle regole di azione statuite. La “regola implicita, elastica, incompleta” della pronuncia sarebbe potuta divenire titolo esecutivo (ovvero, statuizione concreta dei tempi e modi per adempiere all’obbligo) soltanto “progressivamente” nella successiva sede del giudizio di ottemperanza.
1.3. Il comune obiettivo delle successive tendenze legislative e giurisprudenziali è stato quello di far convergere nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita.
Ma, senza dubbio, spetta al codice del processo amministrativo il merito di avere abbandonato definitivamente ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo di annullamento come strumento di controllo dell’azione amministrativa, e di aver consolidato lo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, al rapporto regolato dal medesimo, al fine di scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata, sempre che non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione (così l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011 n. 3; ma alle medesime conclusioni era pervenuta anche una consistente parte della dottrina amministrativistica).
1.4. La nuova “visione” del processo sta, soprattutto, nell’aver radicato tra le attribuzioni del giudice della cognizione il potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34 comma 1 lettera e). La previsione, con tutta evidenza, consente di esplicitare “a priori”, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più “a posteriori”, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento; ne consegue la possibilità di concentrare in un solo episodio giurisdizionale tutta quella attività di cognizione che prima doveva necessariamente essere completata in sede di ottemperanza.
Le misure attuative, talvolta, saranno limitate alla sola definizione dei modi di riesercizio del potere; altre volte, invece, quando l’accoglimento della questione di legittimità non lasci residuare margine alcuno per soluzioni alternative, potranno spingersi a statuire in via satisfattiva sulla spettanza del provvedimento richiesto; all’occorrenza, con la nomina del commissario, le misure potranno anche essere esecutive e sostitutive.

3. Sui limiti all’esperimento dell’azione di adempimento.
Il sistema delineato dal codice non consente certo di ritenere che all’accoglimento del ricorso possa sempre e comunque conseguire la fissazione della regola del caso concreto; ciò sarà consentito solo in presenza di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità.
Il principio, stabilito dall’art. 31, comma 3, deve ritenersi di ordine generale dal momento che l’interesse pretensivo, sia che l’amministrazione rimanga inerte sia che emani un provvedimento espresso di diniego, ha la stessa consistenza e lo stesso bisogno di tutela.
Mentre nei casi anzidetti la pronuncia potrà estendersi a tutti gli aspetti del potere determinandone i successivi svolgimenti, ove per contro, nonostante l’operatività degli istituti di concentrazione, permanga un nucleo di valutazioni discrezionali riservate, il giudice, anche nel nuovo assetto, rimane di certo non autorizzato a spostare dal procedimento al processo la sua definizione.

4. Sulla consumazione del potere discrezionale della p.a. reinvestita della questione a seguito di sentenza di annullamento ovvero di remand.
È possibile che, come nel caso di specie, anche una attività “in limine litis” connotata da discrezionalità possa, a seguito della progressiva concentrazione in giudizio delle questioni rilevanti, risultare, all’esito dello scrutinio del Giudice, oramai “segnata” nel suo sviluppo.
Se pure non può dirsi attualmente condivisa dalla comunità giuridica l’opinione secondo cui l’amministrazione esaurirebbe con il primo provvedimento di rigetto la propria discrezionalità (è la tesi autorevolmente proposta da quanti interpretano il preavviso di rigetto ex art. 10 bis l. 241/90 come norma obbligante l’amministrazione ad indicare, in sede di preavviso di rigetto e con il finale diniego, tutti i motivi ostativi), essendo dai più riconosciuta (anche dopo un primo annullamento) la possibilità di emettere un nuovo atto di diniego per motivi diversi da quelli indicati, tuttavia, deve ritenersi vincolata l’attività amministrativa successiva al secondo annullamento sulla medesima istanza pretensiva.
Quest’ultimo assunto si riallaccia a quell’orientamento pragmatico e ragionevole della giurisprudenza amministrativa secondo il quale, in tali casi, il punto di equilibrio fra gli opposti interessi va determinato imponendo all’amministrazione (dopo un giudicato da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo) di esaminare l’affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati (cfr. Cons. Stato, V, 134/99; Cons. Stato, VI, 7858/04).
Le argomentazioni sopra ampiamente svolte sull’evoluzione del processo consentono di applicare il medesimo principio anche nella consimile ipotesi in cui l’amministrazione venga reinvestita della questione a seguito di “remand” (tecnica cautelare che si caratterizza proprio per rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto gravato, restituendo quindi all’amministrazione l’intero potere decisionale iniziale).

5. Sul principio di aticipicità delle azioni a tutela delle situazioni giuridiche soggettive.
Deve ritenersi ammissibile – anche alla luce di quanto affermato (sia pure in obiter dictum) dal Consiglio di Stato, secondo cui il codice del processo ha introdotto, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011 n. 3) - la condanna dell’amministrazione ad adottare un provvedimento satisfattivo della pretesa (accertata come fondata) del ricorrente.
Infatti, il Codice, superando l’assunto della tipicità delle azioni nel processo amministrativo (peraltro già messo in discussione dalla giurisprudenza), prefigura un sistema “aperto” di tutele, in cui sono ammesse pronunce dichiarative (art. 31), costitutive (art. 29), condannatorie (art. 30).
Per tale via, si invera la garanzia costituzionale (art. 24 cost.) che, riconoscendo la giuridicità del potere d’azione e la sua autonomia rispetto alla situazione giuridica sostanziale alla quale pure è correlata, preclude al legislatore di rendere impossibile o comunque difficoltosa la tutela delle posizioni soggettive manovrando la disciplina del processo. Garanzia, sul cui fondamento, la dottrina processualcivilistica ha da tempo tratto il corollario del superamento di un sistema rigido di rimedi tipici in favore di un principio di generale azionabilità degli interessi protetti, con tutti i mezzi dall’ordinamento consentiti.
Il richiamo (contenuto nel codice) all’esigenza di una tutela piena ed effettiva, in tal senso, conferma che anche il giudice amministrativo è dotato di tutti i poteri necessari alla soddisfazione dei bisogni differenziati. Se l’effettività della tutela giurisdizionale è la capacità del processo di far conseguire i medesimi risultati garantiti dalla sfera sostanziale, anche l’interesse legittimo abbisogna della predisposizione dei rimedi idonei a garantire il conseguimento dell’utilità “primaria” specificatamente oggetto dell’aspettativa riconosciuta dall’ordinamento.

6. Sul principio di “preferenza” ordinamentale per la tutela specifica.
L’allargamento degli strumenti di tutela posti a disposizione del giudice amministrativo, del resto, oltre a confermare il rango paritario riconosciuto più volte dalla Consulta all’intesse legittimo, è coerente con la “preferenza” ordinamentale per la tutela specifica fin quando è possibile.
La giurisdizione amministrativa, sorta storicamente a tutela di posizioni soggettive di appartenenza, era intrinsecamente contrassegnata dalla capacità di rimuovere alla radice la lesione dell’interesse oppositivo, attraverso la demolizione dell’atto lesivo; ma la stessa, anche negli sviluppi successivi, ha cercato di perpetuare tale sua vocazione (ad apprestare rimedi effettivi) con la teoria dell’effetto conformativo.
Tutt’oggi, il principio di preferenza si manifesta nella “pregiudizialità sostanziale” dell’annullamento rispetto alla quantificazione del danno risarcibile (art. 30, III comma, c.p.a.); nell’orientamento giurisprudenziale che assegna priorità al segmento esecutivo conformativo rispetto al risarcimento di utilità minori (come la chance); nell’art. 124 c.p.a. che introduce una gerarchia tra rimedi nel senso che il risarcimento può essere dovuto solo se non è dichiarata l’inefficacia e disposto il subentro. Anche nel diritto privato, a differenza che negli ordinamenti anglosassoni, non ha avuto seguito la teoria dell’inadempimento efficiente che finisce per considerare il contratto come fonte di obblighi connotati dalla mera facoltà del debitore di estinguere il debito con modalità alternative rispetto alla prestazione pattuita, ribadendosi in dottrina l’opposto principio di priorità dell’adempimento in natura, desumibile dal coordinamento degli articoli 1218 c.c. e 1256 c.c. (nonché ulteriormente confermato dall’articolo 1197 c.c. che non consente al debitore di liberarsi dall’obbligazione eseguendo una prestazione diversa da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, senza il consenso del creditore; da ultimo, dalla disciplina della vendita dei beni di consumo).

7. Sull’ammissibilità dell’azione generale di adempimento pubblicistico.
7.1.
La generale ammissibilità dell’azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto emerge dal dato testuale del Codice.
Infatti, l’art. 34 comma 1, lett. c), nel precisare i contenuti della sentenza di condanna, prevede anche l’adozione “delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”; in base alla successiva lett. e) il giudice dispone “le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato”. Le due previsioni, come si vede, prefigurano un potere di condanna senza restrizione di oggetto, modulabile a seconda del bisogno differenziato emerso in giudizio; ovvero, all’occorrenza, quale sbocco di una tutela restitutoria, ripristinatoria ovvero di adempimento pubblicistico coattivo.
La portata generale dell’art. 34 c.p.a. consente di assegnare alle azioni di adempimento tipiche il ruolo non di disposizioni eccezionali ma di esemplificazioni di un’azione ammessa in via generale. In particolare, ci si riferisce: all’art. 124 che menziona espressamente la domanda di conseguire l’aggiudicazione, il cui accoglimento è però condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto, nei casi in cui questa sia consentita; al potere del giudice di ordinare l’esibizione dei documenti richiesti (art. 116, comma 4); al d.lgs. 198/2009, sulla cosiddetta “class action” contro la pubblica amministrazione, che prevede il potere del giudice di ordinare all’amministrazione soccombente di porre rimedio alla violazione accertata (art. 4).
7.2. Non è condivisibile l’obiezione secondo cui, non trovando riscontro la possibilità di una pronuncia di condanna all’adozione dell’atto tra le rubricate azioni di cognizione (art. 29, 30, 31), la citata statuizione di condanna atipica prevista dall’art 34 riguarderebbe i soli casi in cui il ricorrente pretenda l’esatto adempimento di obbligazioni rientranti nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva. In disparte il fatto che la disposizioni prevede che qualunque “situazione giuridica soggettiva” (quindi, anche di interesse legittimo) possa essere tutelata mediante la condanna della p.a. ad adottare misure idonee a garantirne la soddisfazione, ci si potrebbe limitare a replicare che la pronuncia di condanna satisfattiva è già correlata ad una corrispondente azione, in quanto l’art. 30 comma 1, configura l’azione di condanna in termini generali senza distinguere fra condanna risarcitoria e condanna satisfattiva (appare, in tal senso, una inversione logica ritenere che le disposizioni contenute nei commi successivi, riferite alla sola condanna al risarcimento del danno, circoscrivano anche l’oggetto del primo comma).
7.3. Non è condivisibile nemmeno  l’assunto per cui il tipo di pronuncia che il giudice può adottare ai sensi dell’art. 34 debba essere “supportata” da una corrispondente azione prevista negli articoli precedenti.
Sul punto, occorre preliminarmente precisare che non è certo la disciplina del processo la sede nella quale si definiscono e qualificano i bisogni di tutela e le relative forme di tutela (restitutoria, satisfattiva, risarcitoria), bensì la legge sostanziale: non a caso, nel codice di procedura civile, la distinzione delle azioni è tratteggiata ai soli fini del regime della competenza, mentre non esiste una disciplina processuale delle azioni in funzione dei diritti che con essa si fanno valere.
Il codice del processo amministrativo, complice la peculiare commistione tra “processo” e “sostanza” tipica degli strumenti di reazione avverso l’azione amministrativa invalida, ha ritenuto opportuno enumerare all’art. 34 quei rimedi che, per quanto si trovino a stretto ridosso della giurisdizione in quanto la loro concreta realizzabilità è assicurata dagli strumenti del processo, sono tuttavia di pertinenza del diritto sostanziale; tale norma, pertanto, nel discernere le forme di tutela che garantiscono il conseguimento delle utilità oggetto dell’aspettativa degli amministrati, rappresenta sul piano sistematico ed ermeneutico il “prius”.
L’art. 30 c.p.a., invece, da un parte, disciplina soltanto alcuni aspetti del “veicolo” processuale del rimedio (i termini e la necessaria contestualità dell’azione di condanna ad altra azione, salvo i casi di giurisdizione esclusiva e di condanna al risarcimento), che dunque costituiscono il “posterius”; dall’altro, per quanto rubricato come disciplina dell’azione di condanna, contiene spezzoni di fattispecie sostanziale (in particolare, in tema di risarcimento del danno, pur disinteressandosi del profilo causale o di imputazione soggettiva del danno, vengono dettate alcune disposizioni in punto di danno risarcibile). In definitiva, come si vede, il rapporto tra l’art. 34 e l’art. 30 va propriamente invertito: dalla prima norma si traggono quali rimedi sono a disposizione degli amministrati a tutela dei loro interessi; dalla seconda alcuni specifici e complementari aspetti processuali (oltre che spezzoni di fattispecie sostanziale).
7.4. È infondato il timore, manifestato autorevolmente in dottrina, secondo cui la riserva di legge apposta dall’art. 111 cost. alla disciplina del processo (non solo amministrativo) non consentirebbe di introdurre per via interpretativa azioni che il legislatore delegato non ha espressamente previsto, deducendone la tassatività dell’elenco delle azioni contenuto nel capo II del titolo III del codice (ciò in disparte la considerazione che la riserva di legge in questione si riferisce esclusivamente alla disciplina del processo).
L’ammissibilità della condanna satisfattiva, sotto altro profilo, non è contraddetta dal già citato divieto di pronuncia su poteri non ancora esercitati previsto dal comma 3 dell’art. 34, essendo quest’ultimo (come abbiamo visto) finalizzato ad evitare domande dirette ad orientare l’azione amministrativa futura (in cui, cioè, l’amministrazione non abbia ancora provveduto).

T.A.R. Lombardia Milano, Sez. 3, 8 giugno 2011, n. 01428
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