Accedi a LexEureka

Motivi aggiunti in grado di appello

Giustizia amministrativa Espropriazione per pubblica utilità

Sul principio specificità della domanda di chi agisce in giudizio, da cui consegue la specificità dei motivi di impugnazione dell'atto amministrativo e dei motivi di appello, nonché sul principio del doppio grado di giudizio. Ammissibilità di nuove eccezioni in grado di appello. Limiti entro cui sono ammessi motivi aggiunti in appello. Modalità e contenuto delle comunicazioni riguardanti i soggetti e i beni espropriandi ex art. 11 d.P.R. n. 327/2001
Cons. St., Sez. 4, Sentenza 29 agosto 2013, n. 04315

Principio

1. Sul principio specificità della domanda di chi agisce in giudizio, da cui consegue la specificità dei motivi di impugnazione dell'atto amministrativo e dei motivi di appello, nonché sul principio del doppio grado di giudizio.
1.1. L’art. 104 c.p.a., nel porre il divieto di nova in grado di appello, costituisce specificazione di quanto, in generale, previsto dall’art. 345 c.p.c. Entrambe le disposizioni intendono preservare alla cognizione del giudice di appello il thema decidendum offerto al giudizio di I grado e oggetto della sentenza impugnata, che non può ricevere ampliamenti – in tal modo sfuggendo alla regola del doppio grado di giudizio – ma semmai riduzioni, per effetto dei motivi di impugnazione concretamente proposti dalle parti, che ben possono circoscriverlo in II grado, rispetto al precedente grado di giudizio.
1.2. Il divieto di proposizione di motivi nuovi in appello ex art. 104 c.p.a., nel confermare l’esigenza che tutto il “dedotto ed il deducibile”, offrendosi alla cognizione del giudice di I grado, non sfugga al doppio grado di giudizio, costituisce anche attuazione dei principi enunciati dall’art. 24 Cost. in tema di diritto alla tutela giurisdizionale e di diritto di difesa, cui inerisce il principio di parità processuale delle parti.
1.3. Salvo taluni casi nei quali, per esigenze processuali ed in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale, è possibile derogare al principio del doppio grado di giudizio (non costituzionalizzato ma positivamente previsto, in via generale, dalla legge processuale), non può riconoscersi ad alcuna delle parti la possibilità di sottrarre alle altre – attraverso un uso temporalmente differito dei mezzi di tutela – il diritto ad avere i gradi di giudizio previsti dal codice di rito (e quindi, nel caso della giurisdizione di legittimità, la doppia verifica del giudice). In tal senso, si è affermato che nel giudizio amministrativo il divieto di motivi nuovi in appello costituisce la logica conseguenza dell'onere di specificità dei motivi di impugnazione in primo grado del provvedimento amministrativo e più in generale dell'onere di specificazione della domanda da parte di chi agisce in giudizio (Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2011 n. 5758).

2. Ammissibilità di nuove eccezioni in grado di appello.
In linea generale, che nel giudizio amministrativo il divieto dei motivi nuovi concerne esclusivamente i motivi sollevati da chi introduce il giudizio di prime cure, mentre il divieto delle nuove eccezioni, sancito dal secondo comma del medesimo articolo, non si applica alle mere difese, che sono sempre esaminabili per la prima volta in grado di appello; e ciò in quanto il divieto di proporre motivi nuovi in appello è riferibile solo al ricorrente originario e non anche ai resistenti, che possono addurre qualunque motivo (salve le preclusioni previste dalla legge) per dimostrare al giudice di secondo grado l'infondatezza della domanda del ricorrente (Cons. stato, sez. VI, 24 febbraio 2011 n. 1154)

3. Limiti entro cui sono ammessi motivi aggiunti in appello.
3.1. L’art. 104, comma 3, c.p.a. consente la proposizione di motivi aggiunti “qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato i motivi aggiunti sono consentiti in appello solo per dedurre ulteriori censure in relazione ad atti e provvedimenti già impugnati, allorché i vizi ulteriori emergano da documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di I grado, il che determina l’inammissibilità dell’impugnazione in appello di nuovi atti, fermo restando la possibilità per la parte, ove ne ricorrano le condizioni, di proporre avverso questi ultimi autonomo ricorso giurisdizionale (Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2011 n. 2913; sez. V, 21 settembre 2011 n. 5329). 
3.2. L’art. 104, comma 3, cod. proc. amm., ha codificato il pregresso orientamento giurisprudenziale che ammette i motivi aggiunti in grado d’appello al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di primo grado (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 7 aprile 2008, nr. 1442; Cons. Stato, sez. V, 28 settembre 2007, nr. 5024; Cons. Stato, sez. VI, 25 luglio 2006, nr. 4648). Ciò si ricava da una piana lettura del medesimo comma 3° dell'art. 104 c.p.a., il quale non parla affatto di impugnazione degli atti sopravvenuti, ma solo dell’emergere (a seguito della sopravvenuta conoscenza di documenti già esistenti, ma non prodotti in primo grado) di ulteriori “vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”, con tale locuzione dovendo intendersi quelli oggetto dell’originaria impugnazione; l’opposta opzione ermeneutica consentirebbe l’impugnazione dei nuovi atti sopravvenuti per la prima volta e direttamente in sede di appello, con violazione del principio del doppio grado di giurisdizione (cfr. Cons. St., Sez. IV, sent. 16 giugno 2011 n. 3662).
3.3. Dalla disamina del comma 3 dell’art. 104 c.p.a., si deduce che l’oggetto del giudizio di appello resta circoscritto agli atti e provvedimenti impugnati in I grado. Ciò comporta, non solo che ulteriori “atti”, ancorché non aventi natura provvedimentale (non a caso la norma cita distintamente “atti” e “provvedimenti”), non possono essere oggetto di impugnazione, ma anche che i vizi ad essi eventualmente attribuiti non possono riverberarsi quali vizi – in via di illegittimità derivata – degli atti già impugnati. Diversamente opinando, si giungerebbe o ad ammettere che un provvedimento amministrativo possa risentire in via derivata dell’illegittimità di un atto del procedimento, pur senza impugnazione di questo; ovvero che, in sostanza, si aggirerebbe il chiaro limite posto dall’art. 104, co. 3, alla proposizione di motivi aggiunti in appello, in quanto, pur non ammettendone formalmente l’impugnazione, i nuovi atti (ed i loro vizi) dispiegherebbero effetti sui provvedimenti impugnati, allo stesso modo che se fossero stati anch’essi oggetto di impugnazione.

4. (segue): inammissibilità di motivi aggiunti in appello avverso atti conosciuti e conoscibili da parte del ricorrente.
4.1. La condizione della mancata produzione di un documento nel giudizio di I grado, costituisce soltanto un limite preclusivo oggettivo alla considerabilità dello stesso ai fini della proposizione di motivi aggiunti in appello, ma che tale condizione non “seleziona” a contrariis tutti gli altri documenti come “sopravvenuti”, e quindi utilizzabili ai fini di eventuali motivi aggiunti. Infatti, ai documenti “prodotti” devono aggiungersi i documenti che – pur non prodotti dall’amministrazione o da altre parti – possono comunque formare oggetto di acquisizione istruttoria ai sensi degli artt. 63 e 65 Cpa.: questi documenti, quindi, ancorché non acquisiti al procedimento, non possono in futuro essere posti a fondamento di un eventuale ricorso per motivi aggiunti.
4.2. In definitiva, occorre ritenere che i motivi aggiunti in appello, di cui all’art. 104, co. 3, Cpa devono senz’altro riguardare “atti o provvedimenti amministrativi impugnati”, e non possono essere desunti né da atti endoprocedimentali e/o di procedimenti collegati che avrebbero dovuto essere impugnati (e che eventualmente possono ancora formare oggetto di autonoma impugnazione in I grado), né da documenti non solo conosciuti, in quanto prodotti dalle parti in giudizio, ma anche conoscibili, per il tramite dell’esercizio degli ordinari mezzi di prova che il codice riconosce alle parti, ed in specie, al ricorrente. Diversamente considerando:
a) per un verso si svuota il senso stesso dell’istruttoria presidenziale e collegiale di cui all’art. 65, ed in particolare quanto previsto dal comma 3, secondo il quale “ove l’amministrazione non provveda al deposito del provvedimento impugnato e degli altri atti ai sensi dell’art. 46, il presidente o un magistrato da lui delegato ovvero il collegio ordina, anche su istanza di parte, l’esibizione degli atti e dei documenti nel termine e nei modi opportuni”;
b) per altro verso, si finisce per svuotare di senso sia la stessa natura del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, sia il senso stesso del decisum proprio della sentenza di I grado, ben potendo ipotizzarsi una sorta di istruttoria successiva ed extra iudicium, in pendenza di termine per l’appello ed anche dopo la scadenza di questo, venendo in tal modo a prodursi una sorta di “giudizio a formazione progressiva”, che prescinde dal rispetto dei gradi di giudizio previsti per legge.

5. Modalità e contenuto delle comunicazioni riguardanti i soggetti e i beni espropriandi ex art. 11 d.P.R. n. 327/2001.
5.1. Il legislatore, con il novellato art. 11 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante disposizioni in tema di “partecipazione dei privati”, ferma la necessità di garantire la partecipazione degli interessati, intende contrapporre modalità di comunicazione personali (ritenute proficuamente gestibili fino a 50 proprietari espropriandi) a modalità di comunicazione diverse, collettive e più rapide, laddove il numero di detti proprietari sia superiore a 50, in ciò conciliando le garanzie partecipative degli interessati al procedimento (in funzione di tutela delle proprie posizioni sostanziali) con le esigenze di celerità del procedimento e, quindi, di efficacia, effettività ed economicità dell’azione amministrativa.
5.2. Le modalità di comunicazione previste dall'art. 11 d.P.R. n. 327/2001 sono perfettamente coerenti con quanto previsto, in linea generale, dall’art. 8 l. n. 241/1990, in base al quale (comma 3) “qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l’amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di cui al comma 2 mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall’amministrazione medesima”.

6. (segue): contenuto dell'avviso di cui all'art. 11 d.P.R. n. 327/2001.
6.1. L’avviso di cui all’art. 11 d.P.R. n. 327/2001 deve contenere gli elementi idonei a rendere edotto il destinatario del procedimento ablatorio del sacrificio che gli si intende imporre e dei beni oggetto di tale sacrificio. D’altra parte, lo stesso art. 11, nel prevedere che l’avviso di avvio del procedimento deve essere inviato “al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all’esproprio”, presuppone che l’amministrazione abbia identificato il proprietario, e ciò può avvenire solo per il tramite dei beni (e dei loro dati catastali) da assoggettare a procedimento ablatorio.
6.2. Il contenuto dell’avviso, di cui all’art. 11 d.P.R. n. 327/2001, proprio per le finalità cui lo stesso è preordinato, deve essere a maggior ragione completo ed idoneo a rendere compiutamente edotto il proprietario espropriando, proprio con riferimento al caso di comunicazione non personale. È indispensabile una chiara individuazione dei soggetti e dei beni espropriandi (Cass. civ., Sez. Un. 2 dicembre 2009 n. 25345; Cons. Stato, sez. IV, 27 giugno 2008 n. 3245).
6.3. Come tutte le norme che impongono all’amministrazione di adottare atti che favoriscono la partecipazione degli interessati, anche quelle del DPR n. 3272001, relative alla partecipazione al procedimento espropriativo, devono essere interpretaste non in modo formale, ma in relazione alla finalità (di conoscenza del procedimento) per cui esse sono previste dal legislatore. Tale interpretazione – che si desume sia dalla previsione della impugnabilità dell’atto per violazione dell’art. 7 l. n. 241/1990 solo da parte del soggetto nei confronti del quale è stata omessa la comunicazione (art. 8, co. 4), sia, più in generale, dall’art. 21-octies l. n. 241/1990 – porta a considerare ininfluente, ai fini conoscitivi sopradescritti, la eventuale omissione di pubblicazione di avviso di avvio del procedimento sul sito internet dell’amministrazione. E ciò anche prescindendo dal fatto che tale pubblicazione è essa stessa prevista dal legislatore in termini di eventualità.

Cons. St., Sez. 4, 29 agosto 2013, n. 04315
Caricamento in corso