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Azione di condanna al risarcimento

Giustizia amministrativa

Sull’autonomia processuale dell’azione risarcitoria. Sulla rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva dell’atto illecito ai fini della risarcibilità del danno. Sulla regula iuris di cui all’art. 1227, co. 2, c.c. Sulla sussumibilità del tempestivo esperimento della domanda di annullamento tra le condotte rilevanti ai sensi dell’art. 1227, co. 2, c.c. Sull’estensibilità della disciplina codicistica dell’azione risarcitoria a fattispecie e giudizi anteriori all’entrata in vigore del codice.
Cons. St., Sez. P, Decisione Plenaria/Sentenza 23 marzo 2011, n. 00003

Principio

1. Sull’autonomia processuale dell’azione risarcitoria rispetto alla domanda di annullamento.
Sui termini del dibattito relativo alla pregiudizialità della domanda di annullamento rispetto all’azione di risarcimento del danno ha inciso la disciplina dettata dal codice del processo amministrativo.
L’art. 30 del codice, letto in combinato disposto con il comma 4 dell'art. 7 – il cui inciso finale prevede la possibilità che le domande risarcitorie aventi ad oggetto il danno da lesione di interessi legittimi e di altri diritti patrimoniali consequenziali siano introdotte in via autonoma - sancisce, infatti, l’autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio.
Detta autonomia è confermata, per un verso, dall’art. 34, comma 2, secondo periodo, che considera il giudizio risarcitorio quale eccezione al generale divieto, per il giudice amministrativo, di conoscere della legittimità di atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento; e, per altro verso, dal comma 3 dello stesso art. 34, che consente l’accertamento dell’illegittimità a fini meramente risarcitori allorquando la pronuncia costitutiva di annullamento non risulti più utile per il ricorrente.
Questo reticolo di norme consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con l'affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria "ancillarità" e “sussidiarietà” rispetto al paradigma caducatorio.

2. Sull’evoluzione delle azioni a tutela dell’interesse legittimo.
 Il riconoscimento dell’autonomia, in punto di rito, della tutela risarcitoria si inserisce - in attuazione dei principi costituzionali e comunitari in materia di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale richiamati dall’art. 1 del codice oltre che dei criteri di delega fissati dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 - in un ordito normativo che, portando a compimento un lungo e costante processo evolutivo tracciato dal legislatore e dalla giurisprudenza, amplia le tecniche di tutela dell’interesse legittimo mediante l’introduzione del principio della pluralità delle azioni.
Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex art. 30), la tutela dichiarativa (cfr. l’azione di nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4) e, nel rito in materia di silenzio-inadempimento, l’azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all’adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3).
Inoltre il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull’atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717).
In definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.

3. Sulla configurazione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata a un bene della vita.
3.1.
L’apertura a nuove forme di tutela operata dal codice ha determinato la trasformazione del giudizio amministrativo - almeno ove non vi si frapponga l’ostacolo dato dalla non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla pubblica amministrazione - da giudizio amministrativo sull’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, a giudizio sul rapporto regolato dal medesimo atto, volto a scrutinare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata.
Alla stregua di tale dilatazione delle tecniche di protezione, viene confermata e potenziata la dimensione sostanziale dell’ interesse legittimo in una con la centralità che il bene della vita assume nella struttura di detta situazione soggettiva.
Come osservato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 500/1999, l’interesse legittimo non rileva come situazione meramente processuale, ossia quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, né si risolve in un mero interesse alla legittimità dell’azione amministrativa in sé intesa, ma si rivela posizione schiettamente sostanziale, correlata, in modo intimo e inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione a seconda che si tratti di interesse oppositivo o pretensivo) può concretizzare un pregiudizio.
L'interesse legittimo va, quindi, inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell'attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell'interesse al bene.
3.2. In questo quadro normativo, sensibile all’esigenza di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, risulta coerente che la domanda risarcitoria, ove si limiti alla richiesta di ristoro patrimoniale senza mirare alla cancellazione degli effetti prodotti del provvedimento, sia proponibile in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con chiarezza superato.
L’autonomia dell’azione si apprezza, con argomento a contrario, se si rileva che, alla stregua dell’inciso iniziale del comma 1 dell’art. 30, salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo (segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti soggettivi) ed i casi di cui al medesimo articolo (relativi proprio alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti), la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione.
 Si ricava allora che mentre la domanda tesa ad una pronuncia che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio, non è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo (o del rimedio avverso il silenzio ex art. 31), per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma rispetto al rimedio caducatorio.

4. Sulla rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva dell’atto illecito ai fini della risarcibilità del danno.
4.1. Il codice, pur negando la sussistenza di una pregiudizialità di rito tra azione di annullamento e azione risarcitoria, sul versante sostanziale, prende in considerazione la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso.
L'art. 30, comma 3, del codice dispone, infatti, al secondo periodo, stabilisce che, nel determinare il risarcimento, “il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l'omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.
4.2. Operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di auto-responsabilità, il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del “più probabilmente che non” : Cass., sezioni unite,11 gennaio 1008, n. 577; sez. III, 12 marzo 2010, n. 6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell’art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi.
Peraltro, la latitudine del generale riferimento ai mezzi di tutela e al comportamento complessivo consente di soppesare l’ipotetica incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa finalizzati alla stimolazione dell’ autotutela amministrativa (cd. invito all’autotutela).
Del pari, assume rilevanza l’omissione di ogni altro comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.
4.3. La rilevanza sostanziale delle condotte negligenti, eziologicamente pregnanti, è confermata anche dall’art. 124 del codice del processo amministrativo e dell’art. 243 bis del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.
Dall’esame coordinato delle richiamate disposizioni si evince che il legislatore, se da un lato non ha recepito il modello della pregiudizialità processuale della domanda di annullamento rispetto a quella risarcitoria, dall’altro ha mostrato di apprezzare la rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi.

5. Sull’estensibilità della disciplina codicistica dell’azione risarcitoria a fattispecie e giudizi anteriori all’entrata in vigore del codice.
La disciplina dell’azione risarcitoria introdotta dal codice del processo amministrativo può essere estesa a fattispecie e giudizi risalenti ad epoca anteriore all’entrata in vigore del codice medesimo, in quanto ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del codice.
Infatti, secondo il Consiglio di Stato, entrambi i principi affermati dal d.lgs. n. 104 del 2010 – quello dell’assenza di una stretta pregiudiziale processuale e quello dell’operatività di una connessione sostanziale di tipo causale tra rimedio impugnatorio e azione risarcitoria – erano ricavabili anche dal quadro normativo vigente prima dell’entrata in vigore del codice.

6. Sulla portata applicativa della regula iuris di cui all’art. 1227, comma 2, del codice civile.
Secondo il Consiglio di Stato, la mancata promozione della domanda impugnatoria non pone dunque un problema di ammissibilità dell’actio damni ma è idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria, avuto riguardo più che al piano dell’ingiustizia del danno al profilo della causalità dello stesso.
Infatti, la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’interpretazione evolutiva dell’articolo 1227, comma 2, del codice civile.
Come è noto, le regole di cui al primo e al secondo comma dell’art. 1227 disciplinano i due diversi segmenti del nesso causale in materia di illecito civile.
In particolare, il comma 1, in combinato disposto con l'art. 1218 c.c., nell’affrontare il primo stadio della causalità (c.d. causalità materiale), inerente al rapporto tra condotta illecita (o inadempitiva) e danno-evento, valorizza il concorso di colpa del danneggiato come fattore che limita il risarcimento del danno-causato in parte dallo stesso danneggiato o dalle persone di cui questi risponde.
Il comma 2, invece, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c, regola il secondo stadio della causalità (c.d. causalità giuridica), relativo al nesso tra danno-evento (o evento-inadempimento contrattuale) alle conseguenze dannose da esso derivanti.
L’articolo 1227, comma 2 cit. costituisce applicazione del più generale principio di esclusione della responsabilità ogni volta in cui si provi, in base ad un giudizio ipotetico più che strettamente causale, che il danno prodottosi non rappresenta una perdita patrimoniale per il creditore o per il danneggiato in quanto l’avrebbe egualmente subita o perché avrebbe potuto evitarla.
La giurisprudenza più recente ha elaborato - alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall'art. 2 Cost. - un’interpretazione estensiva ed evolutiva del comma 2 dell'art. 1227, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo di astenersi dall'aggravare il danno, ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno).
Cionondimeno, un limite all'obbligazione cooperativa e mitigatrice del creditore e agli sforzi in capo allo stesso esigibili è rappresentato dalla soglia del c.d. apprezzabile sacrificio: il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l'aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose. L'obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende, pertanto, l’esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un "facere" non corrispondente all' id quod plerumque accidit (così, da ultimo, Cass.civ., sez. I, 5 maggio 2010, n. 10895).

7. Sulla sussumibilità del tempestivo esperimento della domanda di annullamento tra le condotte rilevanti ai sensi dell’art. 1227, comma 2, del codice civile.
7.1. Secondo l’Adunanza Plenaria, nel novero dei comportamenti esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo è sussumibile, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c., anche la formulazione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l’utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio.
E ciò in quanto la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione pare orientata nel senso di superare il principio dell’insindacabilità delle scelte giudiziarie e di sanzionare le condotte processualmente scorrette con gli strumenti del divieto dell’abuso del diritto, della clausola di buona fede e dell’exceptio doli generalis.
Al riguardo, assume rilievo la sentenza della Cassazione, sezioni unite, 15 novembre 2007, n. 23726 (conf. sez. III 3 maggio 2008, n, 15476; sez. II, 27 maggio 2008, n. 13791), che ha affermato il principio secondo cui il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario integra condotta contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione, e si risolve in abuso del processo ostativo all’esame della domanda.
A questa stregua la disarticolazione, da parte del creditore, dell’unità sostanziale del rapporto (sia pure nella fase patologica della coazione all’adempimento), oltre a violare il generale dovere di correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve anche in abuso dello stesso ed in una violazione del canone del giusto processo.
Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sincadabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto.
Applicando detto criterio interpretativo, si deve allora ritenere che la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo possa essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell’ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno (in questo senso, Cons. Stato, sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124; sez. VI, 22 ottobre 2008 , n. 5183; sez. V, 31 dicembre 2007, n. 6908; sez. IV 3 maggio 2005, n. 2136) .
7.2. Si deve, infatti, considerare che il ricorso per annullamento finalizzato a rimuovere la fonte del danno, pur non essendo più l’unica tutela esperibile, è il mezzo di cui l’ordinamento giuridico processuale dota i soggetti lesi da un provvedimento illegittimo proprio per evitare che quest’ultimo produca conseguenze dannose. Ne deriva che l’utilizzo del rimedio appropriato coniato dal legislatore proprio al fine di raggiungere gli obiettivi della tutela specifica delle posizioni incise e della prevenzione del danno possibile, costituisce, in linea di principio, condotta esigibile alla luce del dovere di solidale cooperazione di cui alla norma civilistica in esame.
Nella specie assume un ruolo decisivo la considerazione, di tipo comparativo, che la tecnica di tutela non praticata, quella di annullamento, se si eccettua il profilo del termine decadenziale, non implica costi ed impegno superiori a quelli richiesti per la tecnica di tutela risarcitoria, ed anzi si presenta più semplice e meno aleatoria nella misura in cui richiede il solo riscontro della presenza di un vizio di legittimità invalidante senza postulare la dimostrazione degli altri elementi invece necessari a fini risarcitori, quali l’elemento soggettivo, il duplice nesso eziologico nonché l’esistenza e la consistenza del danno risarcibile in base ai parametri di cui agli artt.1223 e seguenti del codice civile
Si deve allora reputare che la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile.
7.3. A diversa conclusione si deve invece pervenire laddove la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione. Si consideri, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, comma 4, del codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, comma 3, del codice del processo amministrativo), il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita desiderato. Dette evenienze, ostative al soddisfacimento in natura della posizione azionata, possono maturare nel corso del giudizio in guisa da produrre la concentrazione in itinere della domanda sul solo profilo del risarcimento sulla base della regola giurisprudenziale oggi canonizzata dall’art. 34, comma 3, del codice del processo amministrativo.

8. Sui profili probatori della causalità ex art. 1227, comma 2, del codice civile nel giudizio amministrativo.
Con riferimento ai profili processuali e probatori che connotano l’applicazione al processo amministrativo della regula iuris sottesa all’art. 1227, secondo capoverso, del codice civile, l’Adunanza plenaria ha rilevato la necessità di adattare l’applicazione della regola civilistica alle peculiarità del processo amministrativo, imperniato sul metodo acquisitivo che permea l’operatività del principio dispositivo
Pertanto, il giudice amministrativo è chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno.
Un rilievo significativo è destinato ad assumere l’utilizzo del mezzo di prova delle presunzioni ex artt. 2727 e seguenti del codice civile, che consente di valutare se l’apprezzamento dell’illegittimità dell’atto operato in sede risarcitoria avrebbe portato anche all’annullamento dello stesso – dato, questo, in linea generale presumibile, vista l’identità dell’oggetto delle valutazioni - in modo da impedire, alla luce anche delle misure provvisorie adottabili in corso di giudizio o ante causam, di mitigare o ridurre il danno.


Cons. St., Sez. P, 23 marzo 2011, n. 00003
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